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Appunti di viaggio. Libia 2011

Un giovane, poco più che ragazzo, dai neri e fluenti capelli, in tuta mimetica, con mitra in mano, sbuca dal castello di containers che, a guisa di arco di trionfo, sbarrava la nostra strada verso Bengasi. Siamo già in vista di Ras Lanuf, luogo fino a qualche mese fa di sanguinosi combattimenti tra le forze del regime di Gheddafi ed i ribelli in avanzata da Bengasi verso Tripoli. Ci intima l’alt. Con atteggiamento da veterano chiede informazioni al nostro autista su di noi, sulla nostra destinazione e professione. L’inesperienza della sua giovane età traspare attraverso gli occhi curiosi del fanciullo anche se ormai provato dall’aver, in pochi mesi dall’inizio della rivoluzione, acquisito la brutale esperienza del combattente. Dignità ed orgoglio emanano i suoi occhi neri e penetranti che ci vogliono far capire in pochi attimi che se una nuova libera e democratica Libia sorgerà e anche merito suo e della sua rischiosa gioventù forgiata sulle strade lambite di carcasse di auto e blindati e sulle facciate delle case crivellate di colpi di mitraglia. Siamo Italiani e questo lo tranquillizza animando un timido sorriso sul suo volto annerito dall’acerba barba incolta.

L’incontro con il giovanissimo miliziano che ci ha fermato nei pressi di Ras Lanuf si ripete con poche varianti ogni trenta chilometri circa. Gruppi di giovanissimi armati pattugliano strade ed edifici. Sono i veterani della rivoluzione che ancora detengono armamento leggero ma pericoloso. Sono coloro che hanno combattuto contro i regolari ed i mercenari di Gheddafi che, con il decisivo aiuto della Nato, hanno debellato il tiranno ed il suo apparato oppressivo. Sono coloro che presto, se il decorso post-rivoluzionario non subirà battute di arresto, deporranno le armi e troveranno la loro collocazione nell’apparato pubblico.

Sogni, illusioni? Forse, ma e certo che l’immagine di questi giovani che, in quanto unici a non essere compromessi con il passato regime, hanno imbracciato le armi per deporre il tiranno e sognare una nuova Libia “di tutti” ci impressiona positivamente. Si, non parlano di Libia democratica, ma di Libia “di tutti”. E’ comprensibile che ciò accada poiché loro non sanno cosa sia la democrazia, ma sanno cosa significa il monopolio su tutto di una famiglia e del suo ristretto gruppo di potere. La Libia di ieri era dominata da quel gruppo che agiva e controllava tutti i settori della vita e delle attività di ogni tipo.

Mustapha Turjiman, l’addetto ai rapporti internazionali del Dipartimento delle Antichità, ci dice, con senso di liberazione, che adesso non dovrà più spiegare all’opprimente apparato della “sicurezza” perché ogni singolo archeologo di altre nazioni volesse realmente entrare in Libia per esercitare in questo interessantissimo paese il suo mestiere. La loro ignoranza ed arroganza era tale che non credevano all’interesse scientifico. Adesso Mustapha si sente libero poiché, almeno fino adesso, non dovrà spiegare più a loschi figuri, improvvisati poliziotti, le singole aspirazioni di ogni ricercatore che intende condurre le sue ricerche nel paese.

Un diffuso senso di liberta attraversa il paese. Vecchi, giovani e meno giovani si sentono liberi di decidere del loro futuro in un paese che adesso sentono proprio e non del tiranno.

Lo scetticismo di chi conosce la storia ed i suoi pericolosi corsi e ricorsi fatti di entusiasmanti fughe in avanti e di tragiche e terribili restaurazioni è d’obbligo. Sorge spontaneo il dubbio che l’entusiasmo ed il sacrificio degli “shabab” venga strumentalizzato dai furbi che in ogni rivoluzione si intrufolano come sempre avviene sfruttando la buonafede dei più. Di trasformismi ne abbiamo visti molteplici dopo il nostro 8 settembre e sappiamo che ce ne sono anche dopo l’8 settembre libico. Sapranno gli shabab della nuova Libia vigilare estromettendo i furbi e facendosi guidare dai saggi? C’è il rischio della deriva integralista che già si affaccia minaccioso nelle dichiarazioni di fedeltà alla sharia fatte dai governanti provvisori del Transitional National Council. Possono essere dichiarazioni diplomaticamente rese per non alienarsi i favori del clero e delle fasce più tradizionali della popolazione, soprattutto, della Cirenaica. Può anche essere un richiamo alla tradizione ed alla storia del paese necessario per realizzare quelle salde fondamenta su cui costruire il futuro del paese. Certo il rischio della deriva fondamentalista persiste in Libia, come negli altri paesi attraversati dalla “primavera araba”. Così come persiste il rischio che il paese si avviti nella spirale autodistruttiva delle innumerevoli faide tra tribù e delle vendette dei singoli. Già adesso il nostro sonno di Tripoli e stato spesso interrotto da sinistre mitragliate conseguenza di quegli inevitabili regolamenti di conti che seguono ad ogni cambiamento di regime in maniera più o meno violenta. Con dignità rispettabile ci si dice che siano gli spari di gioia che solitamente accompagnano i matrimoni musulmani, ma sappiamo che così non é.

La speranza è che le vendette cessino al più presto e che l’esempio di spassionato ed eroico sacrificio degli shabab, ancorché talvolta eccessivamente viziato da giovanile esaltazione, induca chi governerà la nuova Libia ad anteporre l’interesse collettivo a quello individuale come non è avvenuto negli oltre quarant’anni di regime dittatoriale gheddafiano. Del resto e tanto ricca la Libia di risorse che la limitata popolazione opportunamente governata potrebbe vivere agiatamente innescando un sano ed oculato processo di sviluppo nel rispetto della tradizione, dell’integrità e dell’autonomia del paese. In quest’ottica l’Italia, e la Sicilia in particolare, possono giocare un ruolo determinante, in virtù della secolare contiguità storica, culturale ed etnica, ma anche grazie alla simpatia della quale ancora godiamo malgrado qualche governante del passato, ma anche del presente, abbia fatto di tutto per distruggere tale positivo rapporto. Forse il fantasma buono di Balbo ci assiste ancora!!

 

Sebastiano Tusa